Il video virale spesso è venduto dalle agenzie web (soprattutto da loro) come una panacea, un grimaldello capace di entrare nella testa delle persone: il segreto per rendere i low budget vincenti. Falso.
Non esistono nella comunicazione scorciatoie o magie. I video virali non sono l’eccezione e la regola è lo stesso confermata. Vero.
Nel web, dove il re è il contenuto ma la regina è la diffusione, diventa fondamentale trovare un modo economico per raggiungere i prospect. Per questo una corretta pianifi azione strategica deve sapere quando e come utilizzare i video virali e soprattutto su cosa fare leva per realizzarli. A tale proposito esiste una fi tta letteratura, con tanto di ricette per la buona riuscita del video virale, riassumibile nella teoria delle 4S”.
- Sesso > Inutile approfondire, ci sono milioni di detti popolari in materia.
- Splatter > Come diceva Jack Nicholson “se per catturare lo spettatore non basta mostrare un seno, allora taglialo”.
- Sadismo > Inteso come componente psicologica, non sessuale (togliete dalla vostra mente manette e frustini). Già Freud lo indicava come elemento di comicità, dalle torte in faccia fino ai ruzzoloni dalle scale.
- Stupidità > È stata dimostrata una correlazione tra diffusione del video e superficialità dello stesso (chi non ci crede ricordi lo scalpore e l’incredibile numero di visualizzazioni delle due ostiensi che parlavano di calippo e birretta).
Mai la teoria si è allontanata così tanto dalla pratica e da una pratica sensata. Sono nati video “presunti” virali che erano monadi impazzite, slegate da ogni obiettivo di marketing o di comunicazione. Slegate da ogni obiettivo. Panda che picchiano vecchiette per pubblicizzare formaggi e seni nudi per reclamizzare (reclamizzare cosa? Ricordo solo i seni).
Non funziona così. Per capire gli ingredienti sani di un video virale dobbiamo partire da “noi”. La vera base di studio del marketing e della comunicazione. Quando penso a che cosa debba fare un buon video virale ho dentro di me due poesie e una certezza. Avete letto bene: Kotler è nel cestino della mente questa volta.
Si tratta di tornare da luoghi
dove mai siamo arrivati. Di pensare
pensieri così a lungo sopiti
da essersi oramai inabissati.
Si tratta di cogliere con grata sorpresa
minuscoli fiori di campo
di estrarre essenze infinite
da specie ordinarie
lasciate stupidamente a languire
davanti alla porta. Di cominciare a vivere,
ecco di cosa si tratta.
(“Di cosa si tratta” - Franco Marcoaldi, da “Il tempo oramai breve”)
Un’altra ora e ce ne sono state,
ce ne saranno ancora, forse meno
di prima, contenute nelle case,
costrette nel cose, e forse troppe ne restano,
di ore da riempire,
di ore già passate,
non aggregate, pezzi di giornate
a farne uno, un giorno per interno,
almeno uno, un giorno che sia vero:
ci basterebbe, credo, nel frastuono/iniqui
d’ore, un giorno solamente.
(“Addio mio novecento” - Aldo Nove)
Ovvero: un video per essere virale non deve essere inutile, deve far riscoprire elementi straordinari della vita, della nostra vita e parlare a noi. Di noi, in modo inaspettato. Ma non basta. Per riuscirci bisogna partire da quella che per me è la regola aurea di ogni processo creativo: se non sei pronto a sbagliare, mai nulla di originale verrà fuori. Da qui nasce la (mia) necessità di abbandonare il termine “ virale”. Fuorviante e privo di senso. Preferisco - e questa è al tempo stesso la linea per “crearlo” - video condivisibile. Solo un video che sentiamo nostro e ci tocca abbiamo voglia di condividerlo con qualcuno.
Da quali domande partire per realizzare un video che faccia venir voglia, in chi lo guarda, di consigliarlo a un suo amico? Da due domande semplici. Cosa ci emoziona? I sentimenti. Cosa ci fa andare avanti? I sogni. Ecco le “S” che contano, dimenticate le altre 4. Una marca deve narrare una storia coerente con se stessa e con il cuore del suo potenziale pubblico per coinvolgerlo. Emozionarlo. Farlo sognare. Il video condivisibile: non più il sogno di successo, ma il successo del sogno. Finalmente.