L’industria della pubblicità era abituata ad avere come rivale Hollywood per il potere ed il glamour che rappresentava. Nel 1987 un’agenzia provò a comprare una banca. Oggi, dicono, il digital ha minacciato la sua stessa esistenza. Eppure sono convinto che la pubblicità “classica” non morirà mai. Anzi. Cannes, da sempre il festival più importante dell’advertising, un tempo dominata da veri e propri film, che alcuni chiamavano spot, ora sembra una passerella tecnica per Google e Facebook. Ma può la tecnologia sovrastare la creatività? La risposta è no. Per questo non credo nelle web agency pure. Il cervello senza il cuore è invisibile agli occhi. Al di là di una citazione, proverò a spiegare
perché il percorso strategia-creatività rimane necessario.
La pubblicità dalla seconda metà degli anni 60 fino a inizio 2000 sapeva quale era la sua funzione: fare spot famosi per rendere famosi i prodotti. Nel 21esimo secolo di colpo la parola d’ordine è stata “misurare”, perché il digitale lo permette. Internet sembrava aver risolto il problema degli sprechi. Impression, poi Conversione, tutto si poteva racchiudere in una precisa formula matematica. Ford e Agnelli oggi mai direbbero “il 50% della pubblicità che faccio è inutile, ma non so quale sia quel 50%”. Con Google posso arrivare a chi cerca un determinato prodotto e grazie a Facebook posso personalizzare i messaggi per i diversi consumatori. Sprechi, ciao ciao. Forse. I social media inoltre offrono nuovi modi per comunicare e arrivare al cuore delle persone, “engagement” è un mantra che farà felice qualsiasi direttore marketing. Tutti i brand oggi hanno un canale Youtube, diverse pagine social, alcuni persino Google+ che chiaramente non esiste al di là di quello che dicono le statistiche. Sempre più persone vedono gli spot come invadenti, “disrupting”: un insulto. Forse. Perché creare un 30 secondi che va a tutti, invece di andare a dialogare one to one?
Storica la rinuncia nel 2010 della Pepsi al suo spazio durante il Super Bowl. Già, ma proprio questo abbandono è stata la dimostrazione che l’advertising deve integrare il digitale, conoscerlo, saperlo usare, ma non può rinunciare a sognare. Non può rinunciare a invadere il mercato potenziale. In quello stesso anno la Pepsi ha perso il 5% delle quote di mercato. Un mercato che ha riconquistato tornando alla Tv e soprattutto a Bob Hoffman, un creativo vecchio stile, ostile al nuovo.

La verità è che noi, noi che alla fine di brand ci nutriamo e questo la letteratura lo ha ben capito (pensate a American Psycho di Bret
Ston Ellis o a Fight Club di Chuck Palaniuk) e dai brand siamo guidati amiamo ancora desiderare. In un libro notevole (How brand Grow di Byron Sharp), l’imprescindibilità della creatività trova la sua summa teorica. E la dimostrazione che la pubblicità classica non morirà. Mai. Sharp dimostra, statisticamente, che i marchi se vogliono una espansione maggiore non possono affidarsi solo ai consumatori fedeli, la crescita reale e il successo dipende dai “Light buyers”. La Coca Cola è tale perché milioni di persone l’acquistano 2 volte l’anno. La luna ha due facce: non solo quella che vediamo degli addicted, ma anche quella nascosta. I marchi al consumer, tutti, dipendono dalla massa che acquista occasionalmente.
In sintesi: prendere di mira gli utenti esistenti non basta. La pubblicità deve attirare l’attenzione di persone che non sono interessate, apparentemente, a quel marchio. Il valore sta nello spreco, sta nel deprecato 50% inutile eppure necessario, perché la pubblicità funziona non quando cerca di convincerci ma semplicemente quando ci fa ricordare il marchio. Quando attiva “la disponibilità mentale” all’acquisto.

In un supermercato vediamo circa 30mila prodotti, l’advertising deve aprire gli occhi alle persone, deve aprire un varco dove l’acquisto diventa possibile. Bisogna rendere interessante un marchio. Gli annunci ben fatti non vendono, ma fanno sì che la gente
compri. Mantenendo il marchio vivo nella mente, gli spot della Coca Cola cambiano la probabilità che voi compriate una bottiglia, per stappare la felicità. Una spinta piccola, impercettibile, ma determinante. La fedeltà di marca assoluta non esiste, la ricchezza sta nei tradimenti.
Parlo di pubblicità non di vita. Uno studio della Forester Research ha rilevato che il tasso medio di engagement nei primi sei mesi del 2015 su Facebook è di 7 su 10.000 fan. La gente non si impegna nei marchi, li conosce ma non si cura di loro. Il modo per farci ascoltare da chi non è che proprio muoia dalla voglia di conoscerci è interessarli e coinvolgerli. In quest’ordine. Vi è bisogno di un contenuto (al di là del media su cui si decide di diffonderci) che richieda scarso sforzo mentale da parte di chi lo guarda ma capace di affascinare. Lo spot rimane lo strumento principe. E la Tv non morirà, anche se la guardi da un cellulare. L’AdSkipping inoltre, come dimostra sempre il medesimo studio, è in costante declino. E chi di voi non si ricorda una buona pubblicità?
La verità è che la fama di un brand richiede anni di investimenti, ma poi è una ricchezza che può bastare per generazioni: la Coca-Cola, ha guadagnato miliardi da questo principio. Ma nel breve termine, gli effetti della pubblicità su la memoria dei consumatori sono molto difficili da misurare. Non c’è da stupirsi, quindi, che molti direttori marketing diventino dipendenti da ciò che Martin Weigel, dell’agenzia di Nike Wieden Kennedy, chiama il “crack” dei dati: i like, le share, le impression. Esistono, questa è la verità, due categorie di pubblicità. Ci sono annunci per quando si sa cosa si sta cercando - se voglio trovare un elettricista Google è imbattibile per questo. Poi c’è la pubblicità che fissa un brand nell’immaginario di persone che ancora non vogliono comprarlo, ma potrebbero. La
pubblicità non è un venditore, ma inserisce una marca nel cervello della gente. Ci potete rinunciare? Il classico è tale perché mai andrà fuori moda e nella fretta di troppi di reinventarsi, non dimenticate la vostra USP. Sarebbe un errore imperdonabile. (L.P.)