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Questione di lealtà: native marketing tra etica e opportunità

15/07/2016
Da sempre la pubblicità mira a interessare i propri interlocutori. Nel corso del tempo è cambiato il come questo interesse venga ottenuto. Negli anni ‘60 il coinvolgimento del proprio pubblico veniva cercato attraverso il rispetto e la creatività (si pensi ai lavori di Bill Bernbach o alla famosa sentenza di David O’Gilvy “Il consumatore non è uno stupido. Il consumatore è tua moglie. Dunque non mentire a tua moglie e non mentire alla mia”). Negli anni ‘70 con l’evoluzione continua e un’attenzione al sociale e al pacifismo, diretta conseguenza della guerra in Vietnam, avendo consapevolezza che la pubblicità si mischiava con la vita delle persone, almeno in America. Qui in Italia avevamo Carosello ed era davvero tutta un’altra storia. Impermeabile a terrorismo e stragi di stato. Fino ad arrivare agli anni ‘80 con Jacques Séguéla e l’obbligo alla spettacolarizzazione degli spot. Perché qualcuno dovrebbe guardare la pubblicità? Semplice, perché è bella. Con il creativo francese l’interesse per la realtà si trasforma così tanto da incidere direttamente sulla società, mediante le campagne politiche, sia in Francia (“La forza tranquilla” fu decisiva per la vittoria di Mitterand) sia nel resto del mondo. Negli anni ‘90 è iniziato un periodo di riflusso e sbandamento, ma oggi, nel nuovo millennio, grazie alla rete il modo di intendere l’advertising e il suo fruitore è cambiato. Per sempre.


Siamo sempre più davanti a una persona (e non a un consumatore) che si informa (e non si lascia incantare): da qui l’esigenza di cambiare prospettiva. Invertising di Paolo Iabichino coglie bene il punto su come fare pubblicità oggi.Informare. Sapere che si sarà oggetto di scelta e anche di giudizio critico. Proprio per il suo voler interessare il proprio interlocutore l’importanza del contenuto diventa centrale e il Native Marketing nasce da questa esigenza facendo un passo ulteriore in avanti. Come afferma Joel Mitch, viene creato “un formato pubblicitario pensato specificatamente per un determinato media sia dal punto di vista del formato tecnico sia dal punto di vista del contenuto (la creatività)”. L’obiettivo è quello di integrare l’annuncio pubblicitario con il contesto e, se possibile, andandolo ad arricchire. Non più intrusione, ma condivisione. Un bingo per qualsiasi uomo di marketing.

I risultati sono notevoli se si pensa che la maggioranza (il 99.8%) dei banner classici vengono ignorati. E che il 50% dei click sono frutto di un errore. I materiali di ‘’native adv’’, al contrario, vengono guardati il 52% più della pubblicità tradizionale e le aziende hanno afferrato perfettamente la loro importanza, tanto che la spesa in ‘’native ad’’ è cresciuta del 39% nel 2013 e del 22% nel 2014 (Audiweb). Da essere a non essere, il problema diventa sembrare o non sembrare. Pubblicità. La questione però è anche etica: quante persone distinguono tra contenuto e promozione? O meglio la promozione è posta in modo che si possa distinguere dal contenuto?

Il prezzo in gioco è alto: la fiducia. Del consumatore in noi che questo lavoro facciamo e abbiamo il dovere di farlo onestamente. E che il marcio, si spera, rimanga solo in Danimarca. (L.P.)